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Nella testa delle vittime di valanga

Una valanga simulata ha permesso di osservare per la prima volta l’ossigenazione cerebrale sotto la neve

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Giacomo Strapazzon con un partecipante dello studio a Braies (Bz)

Credit: Eurac Research | Annelie Bortolotti

Annelie Bortolotti
by Elena Munari

Grazie alla tecnica NIRS (spettroscopia del vicino infrarosso), i ricercatori di Eurac Research hanno misurato per la prima volta il livello di ossigenazione cerebrale di alcuni volontari in una situazione simulata di seppellimento da valanga. Il loro obiettivo era capire se questo parametro sia legato a un possibile prolungamento della sopravvivenza senza danni neurologici per la comparsa della sindrome delle tre H (da hypoxia, hypercapnia e hypothermia). I risultati della ricerca sono stati pubblicati di recente sulla prestigiosa rivista Resuscitation.

Quando i soccorritori disseppelliscono dalla neve una vittima di valanga in vita, il timore maggiore è rappresentato dai danni neurologici che la mancanza prolungata di ossigeno potrebbe aver causato. Il freddo però è d’aiuto: se il cuore può continuare a battere, la temperatura del corpo si abbassa progressivamente sotto la neve e protegge le cellule del cervello da danni permanenti ̶ nonostante una progressiva diminuzione del livello di ossigeno nel sangue e un aumento dell’anidride carbonica (per la mancanza di un adeguato ricambio d’aria). I medici e il personale di soccorso conoscono questa situazione come la sindrome delle tre H (o delle tre I in italiano, ovvero ipossia, ipercapnia e ipotermia). Ma perché questa sindrome si manifesta solo in alcuni casi? La sua insorgenza potrebbe essere influenzata dal livello di ossigenazione cerebrale? E quale ruolo hanno le caratteristiche della neve che compone la valanga? Conoscere queste risposte potrebbe contribuire a migliorare il trattamento dei pazienti una volta dissepelliti dalla valanga, ma non è semplice: la sindrome delle tre H è una condizione osservata nell’essere umano, ma difficile da simulare. Gli esperti di medicina di emergenza in montagna di Eurac Research ci hanno provato a Braies in Val Pusteria (Bz). Dodici volontari hanno respirato per 30 minuti in una cavità scavata in una valanga artificiale. Hanno simulato così un seppellimento con uno spazio di fronte alla bocca per respirare. Il test veniva interrotto su richiesta dei volontari quando provavano affanno e una sensazione di malessere eccessiva oppure quando i ricercatori riscontravano una diminuzione eccessiva dei livelli di ossigeno nel sangue. Nel corso delle prove i ricercatori hanno monitorato l’ossigenazione cerebrale dei volontari con la tecnica NIRS (spettroscopia del vicino infrarosso), un metodo diagnostico non invasivo che consente, grazie al posizionamento di particolari sensori, di misurare in tempo reale l'ossigenazione di determinati tessuti.

Grazie alla tecnica NIRS abbiamo confermato dal punto di vista sperimentale l’importanza di un’adeguata ossigenazione cerebrale per la sopravvivenza senza conseguenze di un seppellimento da valanga

Giacomo Strapazzon

Questa tecnica ha permesso di osservare che i volontari in grado di terminare il test mostravano un aumento della saturazione cerebrale e probabilmente in una situazione reale avrebbero sviluppato la sindrome delle tre H: il loro corpo si stava raffreddando ma la neve garantiva ancora un sufficiente apporto di ossigeno e una rimozione dell’anidride carbonica. Al contrario, i soggetti che non concludevano il test mostravano una saturazione cerebrale in calo, probabilmente perché la neve non garantiva né un sufficiente apporto di ossigeno, né una adeguata rimozione dell’anidride carbonica, e rischiavano di sviluppare una condizione pericolosa che, se prolungata, avrebbe determinato uno stato di sofferenza cerebrale (oltre a una sofferenza cardiovascolare con interruzione del processo protettivo di raffreddamento e arresto cardiaco). Questa evidenza ha dimostrato per la prima volta in modo sperimentale il legame tra l’ossigenazione del cervello umano, l’aria intrappolata nella neve e l’insorgenza della sindrome delle tre H. Ha mostrato infatti come, fino a una certa soglia, una minor disponibilità di ossigeno non comporti sempre una riduzione dell’ossigeno a livello cerebrale. Il cervello ha infatti dei meccanismi di autoregolazione e compensazione che, in determinate condizioni, garantiscono un adeguato apporto di ossigeno per un certo tempo.

“In questo studio grazie alla tecnica NIRS abbiamo confermato dal punto di vista sperimentale l’importanza di un’adeguata ossigenazione cerebrale per la sopravvivenza senza conseguenze di un seppellimento da valanga ed evidenziato il ruolo delle caratteristiche della neve in cui si trova la persona travolta. Con neve a bassa e media densità le probabilità di evitare uno stato asfittico sono maggiori” spiega Giacomo Strapazzon, primo autore dell’articolo e vicedirettore dell’Istituto di medicina d’emergenza in montagna di Eurac Research. “Come spesso avviene con la ricerca di base, i risultati che abbiamo ottenuto non si ripercuotono oggi sulla pratica clinica, ma proseguendo in questa direzione si potrebbe valutare un utilizzo della tecnica NIRS per migliorare il triage e trattamento pre-ospedaliero dei travolti da valanga per capire se, al momento del disseppellimento, i pazienti siano già in una condizione di sofferenza cerebrale”, conclude Strapazzon.

Approfondimento: lo studio sulla densità della neve a Braies

Oltre misurare la saturazione cerebrale con la NIRS, l’obiettivo principale dello studio condotto a Braies nel 2014 era dimostrare in modo sperimentale l’esistenza di una relazione diretta tra le caratteristiche della neve e la possibilità di respirare sotto una valanga con una cavità di fronte alla bocca. Per arrivare a questo risultato i ricercatori di Eurac Research, dell’Università di Innsbruck e dell’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe (SLF) di Davos hanno monitorato i parametri vitali di 12 volontari mentre respiravano in una cavità scavata in una valanga artificiale caratterizzata da neve di diverse consistenze. Il seppellimento è stato simulato in tre momenti diversi dell’inverno: a gennaio quando la neve è tendenzialmente leggera e asciutta, poi a febbraio e a marzo, quando la neve diventa sempre più pesante e bagnata. Le analisi dei parametri registrati durante i test hanno dimostrato come in presenza di neve meno densa e più asciutta i volontari avessero un buon livello di ossigenazione del sangue e una discreta capacità di respirare per tutti i trenta minuti previsti dalla prova. La neve densa e bagnata ha invece un comportamento simile a quello di un sacchetto di plastica: limita lo scambio di gas tra la cavità e la neve circostante e inibisce velocemente la possibilità di respirare. Le prove condotte con questo tipo di neve sono state infatti quasi tutte interrotte per il rapido sviluppo di una carenza di ossigeno nel sangue dei volontari. Lo studio - unico al mondo e pubblicato nel 2017 da Scientific Reports, la rivista online di Nature - ha dimostrato come la neve possa fornire ossigeno e, in alcuni casi, sia anche in grado di assorbire l’anidride carbonica emessa dal paziente, ritardando l’asfissia.

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Studio sulla densità della neve

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