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Il benessere è per sempre?

Andrea Bonoldi

Il 30 aprile 2021 Eurostat ha completato l’aggiornamento per i dati sul prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto del 2019 per le 245 regioni che fanno parte dell’Unione europea. Sebbene si tratti di un indicatore discusso, che coglie solo in parte la complessa dimensione del benessere, il PIL pro capite resta pur sempre un riferimento cruciale per ragionare, soprattutto in chiave comparativa, sulle dinamiche dello sviluppo economico. Ecco dunque che in questa speciale classifica, ora priva dei dati britannici con la city londinese che per ovvi motivi in passato la faceva da padrona, la posizione di vertice è occupata da un altro centro finanziario, ovvero il Lussemburgo. Seguono alcune regioni irlandesi che per ragioni fiscali ospitano le filiali di importanti imprese internazionali e diversi territori caratterizzati dalla presenza di grandi centri urbani: Parigi, Praga, Monaco di Baviera etc. In 17esima posizione, subito dopo la capitale tedesca dell’auto, Stoccarda, compare la provincia autonoma di Bolzano, davanti non solo a tutte le altre regioni italiane, ma anche ai Bundesländer austriaci. Per un confronto in ambito Euregio, fatta 100 la media del PIL pro capite delle regioni dell’Europa a 27, l’Alto Adige/Südtirol arriva a 155, mentre il Tirolo si trova in 28esima posizione con 136 e la provincia autonoma di Trento occupa la 39esima piazza con 129.

Indubbiamente il dato, piuttosto stabile da almeno una decina di anni, testimonia il raggiungimento di un elevato livello di benessere per gli abitanti dell’Alto Adige. Si tratta di un risultato senz’altro rilevante, in particolare se si tiene conto di quanto debole fosse l’economia provinciale negli anni dell’immediato secondo dopoguerra. In una classifica delle province italiane per valore aggiunto pro capite del 1951 Bolzano si trovava infatti al 57esimo posto, Trento addirittura al 67esimo, ed entrambe le province usufruirono di aiuti pubblici in quegli anni in quanto riconosciute come “aree depresse” (Bonoldi 2021).

L’ECONOMIA DELL’ALTO ADIGE NEL SECONDO DOPOGUERRA: UNA RINCORSA RIUSCITA

In effetti il raggiungimento di elevati livelli di reddito non fu facile, per una serie di ragioni (Leonardi 2009). In primo luogo, l’Alto Adige doveva scontare le debolezze tipiche di un’area di montagna, segnata da un’agricoltura poco capitalizzata, caratterizzata da una bassa produttività del lavoro e da una dotazione infrastrutturale incompleta. A ciò si aggiungeva il dato specifico legato alle vicende storiche del territorio, che nel periodo tra le due guerre avevano visto un primo, significativo insediamento di industrie nazionali sostenuto dal governo fascista. La creazione della zona industriale riprendeva una modalità di intervento utilizzata anche altrove in Italia, e la presenza di importanti impianti idroelettrici, unita alla prospettiva di realizzarne di nuovi, costituiva un fattore di localizzazione importante per le imprese che utilizzavano grandi quantità di energia nei loro processi produttivi. Tuttavia, la creazione della “zona industriale” di Bolzano aveva assunto in primo luogo una valenza chiaramente politica, essendo funzionale all’italianizzazione forzata del territorio perseguita dal regime. In questo modo si rafforzò ulteriormente, presso una parte importante della popolazione locale, un sentimento avverso all’industria che aveva radici più profonde, e che divenne una componente significativa del discorso politico in difesa del gruppo linguistico tedesco (Pixner 1983). Ecco dunque che quando, dopo la guerra e la nascita della Repubblica, la prima autonomia incentrata sul ruolo della Regione cominciò a mettere a disposizione del governo locale risorse finanziarie e spazi di manovra per sostenere l’intervento pubblico in economia, l’idea che lo sviluppo del territorio potesse essere sostenuto anche attraverso la diffusione dell’industrializzazione fu all’inizio fortemente avversata.

Tale orientamento tuttavia cambiò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, quando divenne chiaro che Alto Adige e Trentino rischiavano di essere tagliati fuori dai processi accelerati di sviluppo in atto in Italia settentrionale e in Germania. Il miracolo economico e il Wirtschaftswunder in quegli anni erano caratterizzati da record di crescita e importanti processi di trasformazione sociale, conquiste che si poggiavano in gran parte sull’espansione e il consolidamento della produzione industriale. In Trentino-Alto Adige/Südtirol invece si stentava a tenere il passo con questa dinamica, e la bassa crescita rischiava di alimentare patologie diffuse in altre aree periferiche, come l’emigrazione e lo spopolamento della montagna. Ci fu dunque una travagliata presa di coscienza in parte dei gruppi dirigenti in merito al fatto che per migliorare il reddito e il benessere della popolazione locale non bastasse incentivare la produttività dell’agricoltura e promuovere il turismo, ma fosse anche necessario rafforzare il ruolo dell’industria. Tali principi cominciarono a trovare realizzazione negli anni Sessanta, quando in Alto Adige fu promosso un modello di industrializzazione alternativo rispetto a quello delle grandi fabbriche concentrate nel capoluogo. Si misero in atto diverse iniziative per attirare imprese di medie dimen­sioni, spesso di proprietà germanica, in aree decentrate, dalla Pusteria alla Venosta, al fine di garantire occasioni di lavoro e un aumento dei redditi, senza tuttavia stravolgere gli equilibri sociali. Se è vero che queste scelte avrebbero contribuito sensibilmente a migliorare le condizioni socio-economiche, occorre però rilevare come alcuni orientamenti insiti nella specifica idea di diffusione dell’industrializzazione affermatasi in quegli anni abbiano posto vincoli significativi, almeno sul piano dei principi, al pieno dispiegarsi del potenziale di sviluppo del settore secondario. Nel “Piano di coordinamento territoriale per il Sudtirolo” redatto dall’amministrazione provinciale nel 1961, si sosteneva sì la necessità di promuovere una maggior presenza industriale, ma questa avrebbe dovuto avere caratteristiche specifiche. Dovevano quindi prevalere le imprese medio-piccole, si stabiliva che fossero “da preferire le aziende che richiedono molta mano d’opera a quelle che richiedono molto capitale”, e si aggiungeva che “la creazione di aziende che occupano di [sic] prevalenza donne dovrebbe rappresentare un’eccezione” (Assessorato per l’edilizia popolare 1961, p. 38). In breve, l’obiettivo era cogliere i vantaggi dell’industrializzazione in termini di reddito, evitando però il rischio che le strutture sociali e culturali tradizionali del territorio ne fossero stravolte. In parte tali principi furono recepiti anche nel Piano urbanistico provinciale del Trentino, varato nel 1967, che assegnava a un’industria di medie dimensioni distribuita in diversi poli un ruolo chiave per lo sviluppo. Nel decennio successivo fu poi portato a termine il grande progetto infrastrutturale dell’Autobrennero, che ebbe un ruolo cruciale nell’integrazione del territorio regionale nei mercati a nord e a sud delle Alpi. Anche grazie a queste trasformazioni, negli anni Settanta la regione Trentino-Alto Adige/Südtirol conobbe una crescita significativa della propria economia in confronto a quella nazionale, con il PIL pro capite che fatto 100 quello italiano, passò da 107 nel 1971 a 127 un decennio dopo, mantenendosi poi costantemente al di sopra di questo livello (Felice 2017).

DALLA CRISI DEGLI ANNI ‘70 A OGGI: TRASFORMAZIONI STRUTTURALI E NUOVE SFIDE

È tuttavia noto come gli anni Settanta abbiano segnato una temporanea battuta d’arresto nelle dinamiche di sviluppo dei paesi occidentali, che fu caratterizzata da una maggiore instabilità dei tassi di cambio, dall’aumento dei prezzi del petrolio, dall’impennata dell’inflazione e dalla crisi del modello di produzione fordista incentrato sulla grande impresa. Una crisi importante e complessa, che ebbe i suoi riflessi anche in area alpina (Gebhardt 1990). In effetti, anche in Alto Adige furono soprattutto le grandi imprese localizzatesi negli anni Trenta – Lancia/Iveco, Acciaierie, Alluminio Italia, Magnesio Spa – a subire gli effetti delle dinamiche in atto: in generale tra il 1971 e il 1981 l’incidenza dell’industria sull’occupazione complessiva nel comune di Bolzano si ridusse da circa un terzo al 28,5 per cento (Bonoldi & Petri 2009). La zona industriale aveva ormai imboccato un processo irreversibile di trasformazione, con le attività terziarie che cominciarono da allora a occupare spazi crescenti. A livello provinciale tuttavia, emerge come in realtà il processo di deindustrializzazione sia stato piuttosto graduale fino al nuovo secolo. Il settore secondario ha avuto un calo rilevante nel decennio 1970, di quasi 3,5 punti percentuali sul totale degli occupati, mentre è rimasto pressoché costante dal 1981 al 2001. Anzi, in questo periodo in termini assoluti vi è stata una crescita dell’occupazione di circa 8500 unità, che non si riflette sulle percentuali anche per via della forte crescita del tasso di attività femminile che ha avuto luogo nel periodo, e che è andata soprattutto a vantaggio del settore terziario (Istat).

Anche il settore turistico ha conosciuto a partire dagli anni Ottanta una fase di ristrutturazione piuttosto significativa. La posizione del territorio a cavallo di due mercati importanti e con redditi in crescita come quello germanico e quello italiano aveva contribuito nel periodo precedente a un aumento della domanda turistica a ritmi sostenuti (Mahlknecht 2019), attirando nel settore anche imprenditori di poca esperienza e incerta solidità finanziaria. L’ondata inflazionistica degli anni Settanta inizialmente spinse in direzione di un’ulteriore crescita del settore. La svalutazione della lira accrebbe la competitività dell’offerta turistica sudtirolese sul mercato germanico, mentre la rincorsa tra inflazione e tassi di interesse aprì spazi per ottenere finanziamenti a condizioni di favore, che spinsero alla crescita degli investimenti alberghieri, incentivando ulteriormente la tendenza alla trasformazione di immobili rurali in strutture ricettive. Tuttavia, il decennio successivo mise in luce la necessità di una revisione del modello di sviluppo. Una clientela sempre più esigente e la crescente concorrenza di altre destinazioni sul mercato internazionale imponevano un riorientamento in senso qualitativo di un settore cresciuto in modo disordinato. Si innescò così un processo di selezione che ha visto l’espulsione dal settore dei soggetti imprenditoriali più deboli e una riduzione del numero degli esercizi alberghieri ed extra alberghieri, indotto anche dai limiti introdotti con il Piano provinciale di sviluppo e coordinamento 1980–1982. Una tendenza proseguita anche nei decenni successivi, cui si è accompagnata una redistribuzione dei posti letto a favore degli esercizi delle categorie più elevate (dalle tre stelle in su) e a una maggiore professionalizzazione dell’offerta (Heiss 2009; Kofink & Pechlaner 2010).

La trasformazione strutturale dell’economia sudtirolese ha visto anche, coerentemente con quanto accade nella maggior parte delle economie più sviluppate, un evidente arretramento del peso relativo dell’agricoltura: la percentuale di popolazione attiva occupata nel settore, che era del 43 per cento nel 1951, è scesa al 20 per cento nel 1971 e al 10 per cento nel 2011 (Bonoldi 2021). Sull’agricoltura sudtirolese si è concentrata tuttavia una serie di valenze di natura politica e culturale che ne hanno fatto un settore importante ben al di là del suo peso economico. Gli interventi a sostegno del primario sono dunque stati una componente importante dell’azione del governo provinciale anche nella seconda autonomia, potendo usufruire peraltro delle risorse aggiuntive legate alle politiche della CEE. A partire dagli anni Settanta le politiche provinciali hanno accentuato la spinta a una razionalizzazione del settore, mediante chiari orientamenti in favore di alcune colture specializzate – mele e vino – e una maggiore dotazione di capitale. I dati del censimento del 2000 hanno fatto emergere un aumento del 14,3 per cento della superfice a frutteto – quasi integralmente meleti – rispetto al 1971, e una contrazione del 12 per cento della superficie a vigneto, ma con una netta scelta in favore di produzioni di qualità. Anche il sostegno mirato alle imprese collocate a quote più elevate, giustificato tra l’altro dalla necessità ecologica di garantire il presidio del territorio, ha avuto effetto, se si considera che la produzione di latte è cresciuta del 25 per cento tra il 1971 e il 2000 (Raffaelli 2009). Insomma, l’agricoltura sudtirolese non ha più la centralità economica e sociale di un tempo, ma ha conosciuto una significativa modernizzazione in direzione di una maggiore produttività e di redditi accettabili per le aziende agrarie, grazie anche a un articolato sistema di incentivi. Al contempo, la crescita di opportunità di lavoro nel terziario e la distribuzione delle attività del secondario sul territorio hanno consentito di mantenere un modello insediativo equilibrato tra centri urbani e aree rurali.

Gli ultimi decenni del XX secolo sono stati dunque un periodo di sviluppo significativo per la realtà sudtirolese, anche aldilà del dato puramente economico. Se la messa in atto dei principi del secondo statuto di autonomia del 1972 è stata piuttosto laboriosa, la definizione più ampia delle competenze in capo alla Provincia e la crescita della dotazione finanziaria hanno comunque contribuito, da un lato, a stemperare le tensioni tra i gruppi linguistici, dall’altro a sostenere un ampio ventaglio di interventi pubblici in molti ambiti (Benedikter 2012; Larch 2012). In questo periodo la società sudtirolese è andata inoltre trasformandosi anche sotto il profilo politico e sociale, con l’emergere di significative spinte verso una modernizzazione oggi ancora in atto (cfr. ad esempio Atz, Haller & Pallaver 2016).

I dati relativi all’andamento recente indicano una certa capacità dell’economia sud­tirolese di mantenere nel tempo elevati livelli occupazionali, dimostrando buone doti di resilienza nei periodi di crisi. Anche in anni difficili per l’economia italiana, come ad esempio il 2013 e il 2014, il tasso di disoccupazione medio annuo in provincia di Bolzano non è andato oltre il 4,4 per cento, contro il 12,1 e il 12,7 del dato medio nazionale (Istat). Si può senz’altro dire che oggi in Alto Adige si è prossimi alla piena occupazione. Su questa vicenda di successo hanno indubbiamente inciso le caratteristiche del capitale sociale locale e la qualità dell’azione pubblica, ma non bisogna dimenticare come un ruolo rilevante sia stato giocato da fattori esogeni. La crescita del reddito a nord e a sud delle Alpi e l’incremento dell’interscambio connesso all’integrazione europea hanno infatti sostenuto la domanda di beni e servizi per i quali l’Alto Adige gode di un certo vantaggio competitivo, come i prodotti agricoli di qualità e il turismo. Non tutto il territorio e non tutti i gruppi sociali tuttavia sono stati toccati in maniera omogenea dagli effetti positivi dello sviluppo. Vi sono aree che hanno conosciuto ancora in anni recenti evidenti fenomeni di disagio e spopolamento, e vanno evidenziati anche i rilevanti rischi per l’ambiente, connessi in particolare ad attività a forte impatto come quelle di alcune industrie, il turismo o i trasporti. Tuttavia, resta il fatto che oggi la qualità della vita in Alto Adige si attesta su buoni livelli, e nel discorso pubblico locale non mancano toni – anche giustificati – di diffuso autocompiacimento per i risultati raggiunti.

LE INCERTEZZE DEL FUTURO:
TEMPI LUNGHI DEI SISTEMI D’INNOVAZIONE

Sarebbe tuttavia un errore fatale immaginare che i lusinghieri risultati raggiunti possano essere replicati senza problemi anche in futuro. Lo sviluppo dell’economia sudtirolese è stato reso possibile da un utilizzo più intensivo ed efficiente dei fattori di produzione del territorio, dal manifestarsi di condizioni di mercato favorevoli, dallo sviluppo di capacità imprenditoriali in determinati settori e dalla disponibilità di consistenti strumenti pubblici di intervento. Il contesto generale in cui opera il sistema economico provinciale sta tuttavia mutando rapidamente, e le condizioni sopra viste potrebbero non replicarsi. In particolare, la crescente integrazione dei mercati dei beni e dei servizi ma anche il ruolo sempre più importante delle catene del valore globali nei processi di produzione coinvolgono ormai pienamente anche le regioni alpine, che devono dunque essere capaci di sviluppare nuove strategie (Perlik 2019).

Alcuni indicatori destano in questo senso qualche preoccupazione in merito alla capacità dell’Alto Adige di tenere il passo con i processi in atto. Il “Regional Competitiveness Index”, elaborato dall’Unione europea ad esempio cerca, come dice il nome, di misurare la competitività economica dei territori, combinando fattori come la capacità di innovazione, la qualità delle istituzioni e delle infrastrutture, gli investimenti in ricerca, la sofisticazione delle attività produttive locali etc. Ora, mentre indicatori come il reddito pro capite fotografano la situazione come si è evoluta in passato e com’è oggi, l’indice di competitività regionale ambisce a dire qualcosa in merito alla capacità di un territorio di affrontare nel medio-lungo periodo le sfide poste da un ambiente economico internazionale sempre più integrato e competitivo. In questa classifica l’Alto Adige è collocato molto peggio di quanto ci si possa aspettare, ovvero al 176° posto su 268 regioni europee considerate.1 Anche un altro indice europeo come il Regional Innovation Scoreboard (RIS) vede la provincia di Bolzano in 159ª posizione tra le regioni dell’Unione, e dietro molte regioni dell’Italia centro-settentrionale, mentre il Trentino è posizionato relativamente meglio, al 127° posto (Hollanders et al. 2019, p. 25, 84, 90).

È senz’altro vero che questo tipo di indici, frutto della composizione di dimensioni diverse, vanno sempre presi con cautela e considerati alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio cui si riferiscono (Hauser et al. 2018); tuttavia, l’ipotesi che l’economia provinciale rischi in futuro di crescere meno a causa di un’insufficiente capacità di innovazione va considerata seriamente. La letteratura scientifica sull’argomento ha da tempo identificato nella dimensione regionale un ambito cruciale per la messa in atto di quelle sinergie virtuose tra l’azione degli enti di governo territoriali, il mondo delle imprese e le istituzioni della ricerca che costituiscono la struttura portante dei sistemi di innovazione (Kofler et al. 2018). E tra i ceti dirigenti dell’Alto Adige non manca certo oggi la consapevolezza di quanto sia importante promuovere anche in provincia un sistema di questo tipo. In anni recenti infatti molto è stato fatto, sia mediante incentivi finanziari alle imprese, sia mediante la creazione mirata di centri di sviluppo dell’innovazione, come il parco tecnologico NOI (Nature of Innovation) Techpark, che ha cominciato la sua attività nel 2018 e quasi simbolicamente sorge sul sito di quella che era stata la fabbrica dell’allumino realizzata in epoca fascista nella zona industriale di Bolzano (Kofler et al. 2018; Campregher & Perkmann 2018).

La realtà locale si trova però a scontare, da un lato, i limiti posti al processo di innovazione dall’ambito di attività prevalente e dalle dimensioni medie delle imprese sudtirolesi, anche se ci sono alcuni comparti – come ad esempio le cosiddette Alpine Technologies, le energie rinnovabili, la produzione di componentistica per auto e in alcuni casi anche l’alimentare – in cui le imprese locali hanno introdotto innovazioni significative o sono saldamente inserite nelle catene internazionali del valore (si veda ad esempio NOI Techpark 2019). Vi è poi, d’altro lato, il fatto che le dinamiche che sottostanno ai processi di innovazione non solo sono complesse, ovvero coinvolgono molteplici attori e fattori diversi, ma in gran parte si sviluppano su tempi lunghi. In breve, una cultura dell’innovazione non si inventa per decreto dall’oggi al domani, e i rapporti causa-effetto tra intervento pubblico e sviluppo di un contesto innovativo spesso non seguono logiche lineari (Pyka, Mueller & Kudic 2018). Su questo fronte l’Alto Adige/Südtirol ha esitato per troppo tempo. La letteratura evidenzia oggi come la presenza di centri di ricerca e di formazione superiore costituisca un elemento portante dei sistemi di innovazione (Varga & Erdős 2019). In provincia di Bolzano però su questo fronte si è accumulato in passato un grave ritardo, e si è dovuti arrivare alla fondazione di Eurac Research (Accademia europea all’epoca) nel 1992 perché anche in provincia cominciasse a operare un’istituzione che in questo ambito rispondesse agli standard internazionali (Stuflesser 2010). Solo nel 1997 l’Alto Adige/Südtirol si è poi dotato di un proprio ateneo, la Libera università di Bolzano (Peterlini 2008): il ritardo appare ancor più evidente, se si considera che l’avvio dell’Università del vicino Trentino risale al 1962.

All’importante apertura a un nuovo modello di sviluppo economico per il territorio negli anni Sessanta, che come abbiamo visto riservava un ruolo significativo all’industria, fece dunque da contraltare il permanere nel gruppo dirigente sudtirolese di posizioni più rigide sul fronte culturale e della formazione, fondate sul timore che l’Università potesse costituire uno strumento di italianizzazione, e forse anche di troppo rapida trasformazione culturale e sociale. L’inerzia insita in questi processi fa sì che ancora oggi, accanto a un basso livello della spesa pubblica e privata per ricerca e innovazione, si registri in provincia una percentuale di popolazione con educazione terziaria sensibilmente inferiore alla media non solo europea, ma anche nazionale (Hollanders et al. 2019, p. 84). Quest’ultimo dato può anche essere letto alla luce di un mercato locale del lavoro che finora ha garantito lavoro e buoni livelli di reddito anche a figure senza una formazione a elevata specializzazione. Se questo è senz’altro un indicatore positivo dal punto di vista sociale, occorre tuttavia rilevare come le imprese non manchino oggi di lamentare una certa difficoltà nel reperire sul mercato del lavoro manodopera qualificata, mettendo in luce un problema che potrebbe aggravarsi nei prossimi anni, ovvero quello del disallineamento delle competenze (skills mismatch) tra istruzione e domanda di lavoro (Overhage 2019; Ferraretto et al. 2020).

Nella sua opera Capitalism, Socialism and Democracy, uscita nel 1942, Schumpeter (2003) aveva colto brillantemente nella creative destruction “that incessantly revolutionizes the economic structure from within, incessantly destroying the old one, incessantly creating a new one” il fatto principale del capitalismo. Questo vale a maggior ragione in un periodo come quello attuale, in cui i processi di mutamento tecnologico e ridisegnamento globale dei mercati sono profondi e rapidi. Anche per l’Alto Adige/Südtirol la partita per garantire un futuro di benessere – cogliendo in senso schumpeteriano le potenzialità della “creazione” senza farsi sorprendere dalla “distruzione” – si gioca quindi sulla capacità di individuare correttamente le criticità presenti e di continuare sulla strada del miglioramento del sistema di innovazione locale. Un sistema nel quale formazione e attività di ricerca avranno sempre più un ruolo cruciale.



Abstract

According to Eurostat, in 2019, South Tyrol ranked 17th among the 245 regions of the European Union in terms of GDP per capita. This is a flattering figure, and in some ways surprising, considering that in the years immediately following the Second World War, the structure of the South Tyrolean economy appeared decidedly weak, even compared to most Italian provinces. In the following decades, however, there was a decisive catching up, fuelled by endogenous and exogenous factors. Among the first, the positive effects of a special autonomy regime should certainly be considered, which for the first time, gave the regional and then the provincial administration authority and competences in many fields and significant, well-needed, and later well-spent financial resources. On the other hand, among the exogenous factors, the positive effect on the South Tyrolean economy of the growth of income in Germany and Northern Italy should also be mentioned.

This had important repercussions on the demand for local goods and services, such as quality agricultural production and tourism. In addition to the development of these traditional sectors, it is also worth mentioning that several manufacturing companies are now able to compete effectively in international markets or are included in global value chains. However, there are elements of weakness that must be considered in order to guarantee the maintenance of the prosperity achieved. In particular, the regional innovation system is less developed than it could be, in part due to delays accumulated in the development of research institutions, human capital, and innovative technologies.

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