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La ricerca artistica sulla post-verità: minaccia o risorsa?

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La ricerca artistica sulla post-verità: minaccia o risorsa?
Walid Raad "Yet another letter to the reader", 2016, mostra a cura di Claudia Gioia presso Fondazione VOLUME! - © Federico Ridolfi Walid Raad

Artiste e artisti contemporanei cercano di interpretare il presente e immaginare futuri possibili riflettendo sulla proliferazione e competizione delle verità che caratterizzano le società contemporanee. Come la filosofia, anche l’arte vuole indagare i meccanismi di creazione di dati e documenti – audio-video, immagini, testi – che vengono utilizzati per costruire narrazioni persuasive e perseguire obiettivi politici.

Ci sono tanti neologismi di successo, ma pochi sono capaci di suscitare clamore e perplessità come il termine post-verità, che a partire dal 2016 – quando è stato proposto come parola dell’anno dai curatori dell’Oxford Dictionary – è diventato ovunque oggetto della discussione accademica e del dibattito pubblico. Questa parola è stata utilizzata per descrivere scelte comunicative come quella del comitato per il Leave che durante la campagna per il referendum di sette anni fa, che avrebbe portato alla Brexit, diffuse questi cartelloni: sotto una coda di migranti veniva riportato lo slogan “Dobbiamo liberarci dall’Unione Europea e riprendere il controllo dei nostri confini”. All’immagine, che faceva leva sulle emozioni di paura e disorientamento causate l’estate precedente dalle rappresentazioni mediatiche della cosiddetta “crisi dei migranti”, venivano associate parole fuorvianti, che trasmettevano un messaggio falso. Non avendo mai accettato l’accordo di Schengen, la Gran Bretagna non ha mai ceduto la propria sovranità dei confini e anche da stato membro dell’UE ha mantenuto le proprie frontiere interne, prendendo autonomamente tutte le decisioni relative all’ingresso dei migranti sul suo territorio.

Nonostante l’ampia diffusione, il termine post-verità viene utilizzato per indicare concetti diversi e perciò risulta difficile fornire una definizione chiara e sintetica. Volendo semplificare, potremmo dire che la post-verità è il “regime discorsivo” che caratterizza le società contemporanee. Si tratta di un fenomeno complesso che abbraccia diversi elementi del discorso pubblico: il disordine informativo connesso alle recenti trasformazioni dei media e della comunicazione politica, gli atteggiamenti diffusi nel pubblico come il disinteresse per la distinzione tra fatti e opinioni e la sensibilità a messaggi e narrazioni dal forte impatto emotivo, il proliferare di strategie argomentative che non puntano sulla razionalità e sulla veridicità delle affermazioni, ma sulla persuasione e mobilitazione degli individui rispetto a una certa pretesa di verità. La verità non è scomparsa, ma al contrario assistiamo a ciò che il filosofo Maurizio Ferraris ha chiamato “tribalizzazione della verità”: una proliferazione di pretese di verità contrapposte basate su “fatti alternativi” che riaffermano delle identità e tendono a scontrarsi e a polarizzare le opinioni, rendendo difficile il raggiungimento di un accordo e anche di un compromesso. Anche quando disponiamo di una gran quantità di informazioni e dati, le interpretazioni possono divergere radicalmente. Inoltre, la diffusione massiccia di notizie e dati falsi o manipolati ci rende disorientati, sospettosi e facili prede di chi risulta più brillante e convincente, come mostrano le ricerche condotte da studiosi come Cass Sunstein e Quassim Cassam. Le implicazioni politiche di questo fenomeno per le società democratiche sono di primaria importanza, poiché dalla formazione dell’opinione della maggioranza dei cittadini e delle cittadine deriva il consenso ai progetti politici portati avanti da chi sta al governo.

La verità non è scomparsa. Piuttosto, oggi nello spazio pubblico si scontrano verità alternative e incompatibili, che rendono difficile trovare un accordo o raggiungere un compromesso.

Elisa Piras

Le pratiche artistiche offrono spunti per sviluppare una riflessione filosofica su alcuni nodi della post-verità, dal momento che – come ha sostenuto il critico e filosofo Arthur Danto – l’arte contemporanea è pensiero, riflessione su se stessa e sul mondo, che contribuisce alla comprensione della verità di un fenomeno operando svelamenti e disvelamenti. Per esempio, alla base della 58° Biennale di Venezia del 2019, curata da Ralph Rugoff e articolata intorno all’auspicio (o maledizione) May you live in interesting times, sta la presa di coscienza dell’ambivalenza delle informazioni e della difficoltà di portare avanti una discussione pubblica su argomenti politicamente rilevanti in contesti polarizzati, che spinge a ricercare nuove forme di espressione. Anche quando non viene esplicitamente tematizzata, la post-verità sta sullo sfondo di molte pratiche artistiche contemporanee.

Dorian Sari "Post-Truth, Anger and Violance"© Kunstmuseum Basel | Dorian Sari

Rappresentare la post-verità al potere

La ricerca artistica sulla post-verità è spesso partita dall’attualità, per dare un senso a dinamiche politiche inedite, legandole alla propria esperienza personale. Così, nel 2017 la statunitense Nicole Eisenman mostrava su tela le sue ansie rispetto al presente, con la luce nera del sole e della torcia portata da una figura maschile che ha poco a che vedere con la Statua della Libertà, mentre i cittadini dormono e una nube scura di gas di scarico rende l’atmosfera cupa e oppressiva. L’opera Dark Light – che ha dato il nome a una mostra realizzata dall’artista a Los Angeles nel 2018 – evoca anche il dibattito molto attuale sul “dark enlightenment”, movimento di pensiero neo-reazionario che sfida la teoria democratica.

Sempre incentrata sul presente, ma mirata a spiegare al pubblico la dimensione politica della post-verità, la mostra Post-truth, violence and anger ospitata dal Kunstmuseum Basel Gegenwart dell’artista turco emergente Dorian Sari, che – con sculture e performances filmate – rappresenta i cittadini come pupazzi che girano a vuoto trasportati dalla corrente, incapaci di trovare una direzione, ossessionati dalle pressioni consumistiche e aspettative prestazionali delle società occidentali, rinchiusi in bolle (identitarie) che li isolano dagli altri e che possono scoppiare da un momento all’altro. Questa lettura psicopatologica degli individui e delle società è in linea con le analisi teoriche di filosofi contemporanei come Byung-Chul Han, che mette in guardia dagli effetti depressivi e dispersivi causati dalla sovraesposizione quotidiana agli stimoli (informazioni, immagini, tasks), dalla stanchezza che separa e impedisce alle persone di guardare e parlare insieme.

Documedialità e (ri)costruzione della storia

Una delle caratteristiche peculiari della post-verità, secondo il filosofo torinese Maurizio Ferraris, è la “documedialità”, ovvero la necessità continua di produrre documenti e di trasmetterli attraverso il web per poter agire come cittadini e consumatori come la registrazione richiesta da moltissimi siti, gli innumerevoli moduli di consenso o formulari da compilare per acquistare beni e servizi. I documenti prodotti ed esibiti fondano molte pretese di verità: per esempio, si pensi all’importanza di provare l’autenticità di un testamento di una persona defunta per stabilire i diritti degli eredi, o alla necessità di valutare l’autodichiarazione di titoli di studio e precedenti esperienze lavorative nel curriculum vitae di chi si propone per un posto di lavoro. Dato che la tecnologia attuale permette a chiunque di produrre autonomamente dei documenti, controllo e valutazione della loro autenticità o veridicità diventano sempre più difficili. Di conseguenza, è sempre più arduo discernere tra contrapposte pretese di verità, individuali o collettive. Particolarmente interessante per riflettere su questi temi è il percorso espositivo Is it true? The post-truth archive factory, allestito circa un anno fa al Briggait di Glasgow, che propone un trittico di opere dell’artista e startupper francese Marion Carré. Utilizzando l’intelligenza artificiale, Carré crea archivi (falsi) che si sovrappongono a quelli (quasi veri: si tratta di copie di documenti originali) che hanno fatto da modello, mostrando il carattere dinamico e problematizzando la veridicità degli archivi, contenitori di documenti sui quali basiamo la comprensione della storia e dell’identità delle nostre comunità. La seconda parte del trittico è un esperimento partecipativo: su un sito dedicato, i visitatori possono leggere i documenti e decidere se tenerli o eliminarli, senza sapere se sono veri o falsi. Nella terza parte, infine, l’artista mostra la stampa dei documenti salvati e permette di assistere all’eliminazione fisica di quelli scartati. Il contrasto tra il documento materiale (cartaceo) e la sua elaborazione e selezione virtuale, opera della combinazione di intelligenza artificiale e umana, risulta spiazzante ed evoca scenari distopici orwelliani, generando domande cruciali. Come possiamo fidarci degli archivi (e di chi li custodisce)? Quali verità possiamo basare sui documenti degli archivi?

La post-verità come risorsa: mito o bufala?

Multimedialità e riflessione sul rapporto tra verità e finzione, o tra verità e menzogna, caratterizzano anche un lavoro recente di Damien Hirst, uno degli artisti contemporanei più noti e controversi. Nel 2017, due splendidi palazzi veneziani hanno ospitato la mostra Treasures from the wreck of the Unbelievable: una serie di reperti ripescati dal mare vicino alle coste dell’Africa Sud-occidentale, provenienti dal relitto del vascello Apistos (Incredibile), naufragato circa duemila anni fa durante il viaggio per il trasporto della collezione di oggetti d’arte provenienti da ogni angolo del mondo antico, raccolta dal ricchissimo schiavo liberato Cif Amotan II. Si tratta di un colossale esperimento di dare forma alla post-verità, dal momento che tutta la mostra si regge su una narrazione che unisce fatti veri e falsi, usa toni sensazionalistici e si avvale del supporto della “scienza”, coinvolgendo professionisti e utilizzando strumenti tecnologici per dare sostegno alla storia raccontata. Storia che, naturalmente, è falsa. O forse no. Secondo Hirst, la verità della storia dipende dalla volontà dei visitatori di assumerla come vera o, forse, di entrare nella realtà alternativa scaturita dall’idea dell’artista e realizzata con anni di lavoro. Naturalmente, in questo caso è difficile individuare il confine tra gioco, provocazione e marketing. Ciò che è certo è che il miscuglio di mito, arte e scienza non è una novità. Dalle reazioni negative alla mostra di Hirst espresse su siti e social media da visitatori e critici (da alcuni definita “esagerata”, “dominio assoluto del kitsch”, “fanfaraonica”), sembrerebbe che accettarlo risulti oggi più problematico che in passato. Nella società della trasparenza e della post-verità, caratterizzata da sovrabbondanza di parole e immagini e da continui spostamenti “dimensionali” (dal mondo reale a quello virtuale-digitale e viceversa), non solo la nostra fiducia, ma anche la nostra attenzione e disponibilità alla meraviglia sembrano andare in crisi.

Nella società della trasparenza e della post-verità, caratterizzata da overload informativo, sovrabbondanza di immagini e continui spostamenti dal mondo reale a quello virtuale cambiano radicalmente i significati di parole come fiducia e meraviglia.

Elisa Piras

La capacità di raccontare delle storie (storytelling), sempre più basata sulla finzione, sull’affabulazione e sul coinvolgimento emotivo, è una risorsa importante per la presentazione delle opere d’arte contemporanea. Un altro esempio è offerto dal progetto Yet another letter to the reader, presentato all’inizio del 2017 dalla Fondazione Volume! di Roma, dell’artista libanese Walid Raad: come Hirst, anche Raad costruisce una fake news e combina i topoi narrativi per costruire una narrazione a effetto che faccia da cornice alle sue opere. La scoperta di casse di quadri dipinte da parte di una alter ego dell’artista, Suha Traboulsi, palestinese impiegata presso il ministero della cultura libanese che avrebbe cercato di salvare i dipinti di artisti arabi dalla dispersione dovuta alla corruzione dei funzionari governativi, permette di mettere a fuoco un punto problematico, ovvero la tutela del patrimonio artistico in un’area caratterizzata da conflitti e malgoverno diffuso. In questo caso, l’elemento di post-verità serve a inserire l’opera dell’artista in una cornice di senso, portando dentro lo spazio espositivo una realtà culturale e geopolitica e la capacità di azione di persone (finte, ma non troppo) che si trovano a operare per tutelare la cultura e la bellezza in contesti ostili. Piuttosto che negare o evitare la realtà, quindi, in questo caso la narrazione ha lo scopo di espanderla, legando la pratica artistica alla dimensione politica. Questo, come gli altri esempi che abbiamo preso in considerazione, ci spinge ad apprezzare la rilevanza del tema della post-verità per gli artisti e a considerarne la natura ambivalente: non solo bersaglio di critiche e fonte di inquietudine, ma anche risorsa per condurre la ricerca sulla verità fuori dagli schemi tradizionali.

La post-verità per gli artisti ha una natura ambivalente: non solo bersaglio di critiche e fonte di inquietudine, ma anche risorsa creativa per condurre la ricerca sulla verità fuori dagli schemi tradizionali, esplorando mondi possibili per creare nuovi immaginari.

Elisa Piras

Per uscire da questi schemi, sarà necessario anche aumentare le occasioni di confronto e collaborazione tra chi si occupa di arte e chi fa ricerca nell’ambito delle scienze sociali. Nei prossimi anni, continueremo a confrontarci quotidianamente con la post-verità, che è un tema di frontiera non soltanto per i ricercatori e per gli artisti, ma anche per il mercato. Come dimostrano le discussioni sulla diffusione su ampia scala di app come Zao, Lensa o ChatGPT, che permettono a chiunque abbia uno smartphone di sfruttare la tecnologia per produrre o manipolare istantaneamente video, immagini e testi, c’è grande attenzione per gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, così come per le possibili implicazioni sociali e politiche della diffusione di queste tecnologie e pratiche. Da questa prospettiva è facile prevedere che il processo di frammentazione/moltiplicazione della verità non si arresterà e che non sarà semplice armonizzare le opinioni basate sulle tante verità alternative per raggiungere accordi o compromessi. Per stimolare la riflessione critica sugli sviluppi tecnologici e sull’evoluzione del discorso pubblico, arte e filosofia continueranno a svolgere un ruolo cruciale.

Elisa Piras

Elisa Piras

Elisa Piras è Senior Researcher al Center for Advanced Studies di Eurac Research. In passato, è stata Assegnista di ricerca all’Istituto Dirpolis della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Dopo il conseguimento del PhD in Politica, Diritti Umani e Sostenibilità, la sua ricerca si è concentrata sulle teorie filosofiche del liberalismo contemporaneo, con particolare attenzione ai temi legati alla dimensione internazionale dell’agire politico, alla politica estera e alle teorie dell’opinione pubblica. Ha svolto attività di ricerca e insegnamento sul nesso tra identità e sicurezza, soprattutto riguardo ai fenomeni di discriminazione e violenza di genere e all’Agenda Donne, Pace e Sicurezza delle Nazioni Unite.

Citation

https://doi.org/10.57708/b148553395
Piras, E. La ricerca artistica sulla post-verità: minaccia o risorsa? https://doi.org/10.57708/B148553395

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