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"A cosa serve l'innovazione se la società cade a pezzi?"

Stephan Ortner, direttore di Eurac Research, sull’esperienza e le lezioni della pandemia

Thilo Schmuelgen
© Reuters/Contrasto | Thilo Schmuelgen
by Barbara Baumgartner, Sigrid Hechensteiner

Eurac Research ha superato di gran lunga le sue aspettative durante questo difficile anno e mezzo, riconosce il direttore Stephan Ortner. Quello che la pandemia ha rivelato sulla nostra società lo rende però scettico: siamo all’altezza della crisi climatica, la prossima, ancora più grande sfida che ci aspetta?

Alle spalle un anno e mezzo di gestione dell’emergenza: con quale sentimento ripercorre questi mesi?

Stephan Ortner: Penso che possiamo essere soddisfatti. E dico “noi” perché un’intera task force trasversale a più dipartimenti è stata coinvolta nella gestione della crisi: sicurezza sul lavoro, risorse umane, ufficio legale, ricerca, comunicazione. In un sondaggio anonimo, il personale ha valutato in modo prevalentemente positivo come abbiamo gestito questa situazione eccezionale e non è un risultato da dare per scontato in una situazione così tesa e agitata: è facile essere criticati, qualunque cosa tu faccia. Credo che il fatto più importate e apprezzato sia stato l’aver preso tutte le decisioni in modo molto trasparente. Inoltre abbiamo E abbiamo agito per tempo. Nella task force avevamo in comune un atteggiamento, quasi un motto: non mettersi al riparo e aspettare, ma prendere la pala e mettersi al lavoro. Una pandemia è in qualche modo una prova di carattere.

Eurac Research ha superato il test come si aspettava?

Ortner: È andata ben oltre le mie aspettative. Così tante persone si sono mobilitate per aiutare, per affrontare la crisi, per fare qualcosa. I team che si occupano di ricerca medica si sono messi subito al lavoro per supportare l’Azienda sanitaria locale, ma in generale nessuno ha scalato la marcia. Al contrario: mi sembra che la maggioranza abbia pigiato sull’acceleratore. Lo si vede dal numero di progetti conclusi, acquisiti e presentati.

Stephan Ortner© Eurac Research | Ivo Corrà

A marzo 2020, lo smart working è stato esteso al cento per cento dei contratti. Chiunque, con poche eccezioni, era al lavoro da casa, orari di lavoro flessibili. Aveva dubbi sul fatto che potesse funzionare?

Ortner: Erano piuttosto alcuni direttori dei nostri istituti ad avere dubbi. Io sono convinto da anni che lo smart working funzioni bene. Anche se, durante i lockdown, per chi aveva bambini a casa è stato ovviamente difficile e stressante. D’altra parte, non c’era alternativa: se una cosa del genere fosse successa prima, Eurac Research avrebbe dovuto chiudere per un anno, come molte altre aziende. Ora abbiamo questa possibilità, grazie all’enorme progresso della digitalizzazione, che rappresenta un vero e proprio salto quantico. Sarà interessante vedere cosa rimarrà di questa esperienza in futuro e come invece torneremo alle vecchie modalità di lavoro.

Il mondo della scienza ha dovuto riconoscere che una cosa è l’insegnamento puro, altra cosa è comunicare e mettere in pratica la ricerca.

Stephan Ortner
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Eurac Research: un anno di lavoro in pandemia in numeri

Tutti in ufficio ogni giorno: un’epoca finita?

Ortner: Credo di sì. Alcune persone saranno felici di tornare in ufficio più spesso, altre potrebbero aver realizzato che è meglio lavorare in modo più indipendente e tra le quattro mura di casa. La libertà di scelta non può che riflettersi in modo positivo sul benessere generale e sulle prestazioni. D’altra parte, dovremo fare in modo che le occasioni di incontro di persona non diventino troppo rare, che non si perda l’uno o l’altra nell'isolamento. Resta da vedere cosa significherà tutto questo per le nostre città, per i servizi di ristorazione e tutte le altre attività legati alla vita d’ufficio. Ci sono cambiamenti e nuove sfide davanti a noi. Dal punto di vista della lotta ai cambiamenti climatici è per certo uno sviluppo molto positivo.

Come ricordava, vari team di ricerca hanno lavorato a stretto contatto con l’Azienda sanitaria o hanno indagato l’impatto della pandemia su vari settori. Questa esperienza più migliorare la visibilità e la reputazione della ricerca a livello locale, anche a lungo termine?

Ortner: Quanto sia essenziale la ricerca è più chiaro, è vero. Resta da vedere se l’immagine che ha dato di sé il mondo della ricerca sia sempre stata la migliore. D’altra parte, chi fa ricerca è un essere umano come gli altri; in questa nuova situazione – in cui improvvisamente dovevano interagire molto di più con la società e la politica, il mondo della scienza ha dovuto riconoscere che una cosa è l’insegnamento puro, altra cosa è comunicare e mettere in pratica la ricerca. Penso che sia stato un processo di apprendimento per entrambe le parti e, nel migliore dei casi, ne è nata una maggiore comprensione reciproca. La reputazione della ricerca non è certo diminuita.

Questo potrebbe significare più fondi per la ricerca?

Ortner: Temo che purtroppo le avvisaglie dicano il contrario: ci sono meno soldi a disposizione a causa della crisi e saranno necessari molti fondi per alleviare i disagi sociali. Tuttavia, la scienza sarà importante per affrontare le sfide del post-pandemia; in particolare le scienze umane e sociali, che già negli ultimi anni hanno tanto faticato a ottenere finanziamenti perché l’innovazione tecnologica e scientifica era considerata una priorità. Infatti il problema che affrontiamo ora è una società profondamente divisa e nessuna vaccinazione risolverà questa situazione. Sono emersi mondi paralleli, refrattari alle conoscenze scientifiche, e la prima domanda da farsi è: da quale punto condiviso possiamo avviare un dialogo? Penso che qui le scienze naturali possano fare poco. Dopo tutto, a cosa serve l’innovazione se la società cade a pezzi?

Come possiamo affrontare la crisi climatica se le argomentazioni della scienza non arrivano più a una parte della società?

Stephan Ortner

Quindi le scienze umane e sociali acquisteranno nuova importanza?

Ortner: Ne vedo un grande bisogno. A mio parere, queste divisioni che sono emerse sono solo un assaggio di ciò che ci aspetta con la crisi climatica. Come possiamo affrontarla se le argomentazioni della scienza non arrivano più a una parte della società? E poi c’è un’altra grande questione che deve preoccuparci: la debolezza dei sistemi democratici. Se facessimo oggi un sondaggio sul valore della democrazia, sono certo che i risultati sarebbero diversi da quelli dello stesso sondaggio fatto prima della pandemia. Qui vedo il pericolo – e nella crescente disuguaglianza. In tutto ciò i social media, con la ricerca dello uno scontro perpetuo e la divisione netta del mondo in bene e male, hanno un ruolo devastante. Per un anno e mezzo, la pandemia ha fatto i raggi X alla nostra società e ha portato alla luce tutte le debolezze.

Quale lezione dovremmo imparare da questa esperienza?

Ortner: Credo che oggi una cosa sia chiara: una società che è già così frammentata e divisa in tempi di pace e normalità difficilmente può far fronte a problemi così grandi. Abbiamo bisogno di un nuovo comune denominatore, una sorta di spirito corale che ci aiuti ad affermarci come società. E naturalmente non penso che questo denominatore comune dovrebbe essere il nazionalismo, ma piuttosto una volontà comune di rendersi utili o di vivere in sintonia con l’ambiente, gestendo al meglio le risorse naturali. Se guardiamo all’Asia - e ovviamente non intendo i sistemi autoritari – vediamo che le società dove c'è più rispetto per gli altri esseri umani hanno reagito meglio alla pandemia.

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